<img height="1" width="1" src="https://www.facebook.com/tr?id=2062155644083665&amp;ev=PageView &amp;noscript=1">
Salute mentale

Anoressia affettiva: quando si ha paura di amare

Scritto da Dott.ssa Giuliana Lobascio  | 
LEGGI ORA

8' di lettura

Oggi parliamo di anoressia affettiva. Spesso si sente parlare di "anoressia" associata ad un disagio di tipo alimentare che implica un rifiuto attivo del cibo ma, in realtà, questo termine racchiude al suo interno diversi tipi di disagi della persona.

La parola anoressia, infatti, deriva dal greco an, che indica privazione o negazione, e dal verbo orao, che significa desidero, appetisco. Anoressia quindi come “mancanza di desiderio” comprendendo nel concetto di desiderio anche quello affettivo, amoroso e sessuale.

Di conseguenza, così come esiste un’anoressia alimentare esistono anche un’anoressia sentimentale, affettiva e sessuale.

Scopriamo insieme di che cosa si tratta:

1    Anoressia affettiva: che cos’è?
2    Chi è soggetto a questo disturbo?
3    Come si cura?

Donna sola che pensa seduta sul letto

 

 

1. Anoressia affettiva: che cos'è?

Non si tratta di un nuovo tipo di disagio, ma di rado lo si affronta. Esso ha a che fare con l’inibizione o il rifiuto del desiderio di contrarre relazioni amorose, della cui intensità, esclusività e durata si ha paura, odio e ripugnanza. Ciò porta ad una costruzione difensiva che il soggetto genera inconsapevolmente al fine di proteggersi dalla possibilità di entrare in contatto con un grande dolore.

Si tratta di un vero e proprio isolamento affettivo che è spesso conseguenza di una lunga fase depressiva o di dipendenza affettiva, ovvero una patologia relazionale nella quale l'amore e ciò che ne deriva a livello emotivo diventa l'oggetto di un desiderio morboso o di un’ossessione.

Ne consegue che il soggetto non riesce ad entrare in intimità profonda con l’altro, ma entra ed esce repentinamente dalle relazioni o si chiude in una condizione di isolamento autarchico, al fine di limitare il più possibile i contatti profondi esercitando una sorta di maglia di controllo legata all’inibizione dei propri bisogni emotivi- affettivi.

2. Chi è soggetto a questo disturbo?

A soffrire di questo disturbo sono spesso persone che appaiono socievoli, ben inseriti nel contesto parentale o lavorativo, tuttavia caratterizzate da un’interiorità chiusa e solitaria. Non conoscono e di fatto temono l’intimità psicologica e affettiva.

Altre volte si tratta di soggetti poco inclini alle relazioni, sono spesso persone timide o fortemente intellettuali, razionali, rinchiuse nel proprio mondo che sembrerebbe essere inavvicinabile. Desiderano l’intimità, ma la evitano perché terrorizzate.

Nei casi invece in cui il soggetto intraprende delle relazioni, non si lascia mai coinvolgere pienamente, mantiene un forte controllo della stessa. Appare molto indipendente, in grado di sostenere una buona vita lavorativa, ma è sempre lontano da relazioni stabili e durature.

Infine, quando vi è la possibilità di amare, il soggetto percepisce numerosi stati emotivi spesso tra loro contrastanti ed estremamente intensi: il desiderio, l’angoscia, l’inquietudine, la rabbia, la paura, le ossessioni. Si ricercano solo mancanze e difetti nell’altro al fine di renderlo “inoffensivo” e attuarne l’evitamento.

Donna che compila un questionario

3. Come si cura?

Proprio come nel caso di un disagio alimentare, difficilmente si chiede aiuto: il soggetto non percepisce il proprio disagio, non considera la situazione come problematica. Può capitare che si manifestino sintomi di natura psicosomatica, ovvero quei sintomi che si dimostrano una risposta fisica di un disagio psicologico, come insonnie o disturbi gastrointestinali che portano il soggetto ad interrogarsi.

Tuttavia, è quando si entra in contatto con il proprio vuoto, con la profonda solitudine e con la paura di non poter mai avere una relazione stabile che queste persone riescono a chiedere un aiuto di tipo psicoterapico, poiché risulta intollerabile sentire e gestire questo tipo di sofferenza.

Il lavoro psicoterapeutico che ne consegue è molto complesso e delicato, necessita di una presa di consapevolezza ed una successiva accettazione del disagio, di un lavoro costante circa la paura tra dipendenza e indipendenza, il ripercorrere la propria storia e interrogarsi sui modelli d’amore appresi all’interno della propria famiglia d’origine, elaborare il lutto delle assenze e delle mancanze, assieme ad altri numerosi nuclei di paura e sofferenza che è possibile trattare solo in modo lento e graduale.


Dott.ssa Giuliana Lobascio
Autore

Dott.ssa Giuliana Lobascio

Psicologa Clinica e delle Relazioni Familiari, Psicoterapeuta Sistemico Relazionale. Oltre l’attività di libero professionista, che esercita presso il proprio studio privato, si occupa di interventi di prevenzione nelle scuole e collabora con il centro ABA di Milano per il trattamento del disagio alimentare e del trauma.